A MERET
A MERET
Inaugurazione mercoledì 8 marzo 2017 ore 18
dall'8 marzo al 2 aprile 2017
Il fatto che un artista frequenti interessi non genericamente orientati ai temi del sacro e dello spirituale ma specificamente legati alla tradizione biblica del senso religioso, porta oggi con sé una originalità che non manca di coraggio. Non solo per il suo rimanere nei pressi di una cultura che per tante ragioni porta con sé le ferite della squalifica sociale. Ma soprattutto per la temerarietà di avvicinarsi con gli strumenti espressivi e concettuali dell’«arte contemporanea» a una materia ancora istintivamente legata alla convenzione figurativa dell’«arte sacra». Le perplessità suscitate dalla prima e le nostalgie inoculate dalla seconda in certi perimetri della cultura religiosa non hanno ancora smesso di alimentarsi a vicenda. Nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti. Questo buttarsi in una mischia ancora avvolta dalla polvere indica certamente carattere da vendere. Farlo oltretutto andando a mettere il dito in certe questioni di genere, aumenta il merito dello sforzo meditativo manifesto in questa mostra. L’artista donna che lavora sui temi della condizione femminile può anche apparire un luogo comune che non sorprende più. Anche se non va trascurato a prescindere. Avventurarsi in una riflessione sulla donna passando attraverso certe figure femminili estratte dal vivo della letteratura biblica ha però qualcosa di meno prevedibile. Espone di sicuro a maggiori pregiudizi. Richiede senz’altro una libertà di lettura che sappia stare lontana da certe ovvietà devozionali senza però allontanarsi da un necessario centro di densità spirituale.
La dedica del titolo a Meret Oppenheim, modella e musa di Man Ray, accende già un ammonimento fermo e perentorio circa i sentieri che Camilla Marinoni decide di aprire in questa piccola incursione nel brusio di un gineceo biblico. Un omaggio personale e affettivo. Ma difficile non vederlo anche come una dichiarazione di intenti. Una vicinanza di spirito. Una ispirazione, per quanto tenue.
Eva, Tamar, Rut, Maria e un’anonima adultera, le cui iniziali formano l’acronimo che dà il titolo alla mostra, sono nel contempo tipi di donne reali e icone di una mitologia sfuggente, persone realmente esistite e figure letterarie forgiate dalla teologia del testo, realtà e immagine, quell’universale che la lettera biblica ha imparato a distillare osservando con scrupolo un numero sconfinato di femmine reali, del loro coraggio e della loro vulnerabilità. Nella mostra nessuna di loro è chiamata a insegnare nulla. Ognuna di esse è una sorta di ingresso in un modo di essere, in cui molte donne potranno riconoscersi e a cui molti uomini cercheranno di avvicinarsi, una forma dell’esistere che Camilla Marinoni traduce per lo più in gesti da compiere, in una forma di interazione con gli interventi artistici senza di cui il senso delle istallazioni non prende vita. L’insieme del lavoro convoca una pluralità di scelte formali che alla fine si sommano come un catalogo dei poteri espressivi dell’arte, dai video, alle emissioni acustiche, alle strutture polimateriche, al concettualismo di oggetti trasformati in una situazione. In questa piccola antologia di generi letterari dell’arte bisognerà muoversi senza reticenze, sedersi davanti a uno specchio e guardarsi negli occhi, annodare fili su una albero di ceramica, chinarsi attratti da voci che vengono da una scatola nera, insomma offrire il proprio corpo come indispensabile complemento dell’operazione artistica.
Magari poi a uno viene voglia di tornare alla rudezza di quei racconti da dove sbucano queste donne bibliche, per capire certi nessi che il lavoro dell’arte ha disciolto della sua interpretazione, persino trovarne di nuovi, come qualcuno che appena iniziato alla lettura non sa più frenare l’emozione di inoltrarsi in nuove storie. Ma il lavoro di Camilla Marinoni ha la solidità di quegli incontri personali che diventano porte d’ingresso per molti. I suoi occhi hanno visto cose che le sue mani ci mettono di fronte. Lo ha fatto peraltro con sobrietà, senza accumuli didascalici, conservando l’essenziale e lasciando perdere l’inutile, oggetti contati, immagini scelte, gesti selezionati. Senza cedere alla tentazione di esibire se stessa, di rispecchiarsi narcisisticamente nella propria opera, di rovesciarsi nei temi facendone cornici del proprio interiorismo. L’indice di ogni elemento delle istallazioni è sempre puntato altrove. In un punto che forse nemmeno Camilla Marinoni conosce fino in fondo e di cui potrà conoscere la direzione solo osservando a sua volta tutti quelli che passeranno tra le sue opere.
Giuliano Zanchi
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