top of page

Prima che le foglie cadano

PRIMA CHE LE FOGLIE CADANO

dal 29 settembre al 21 ottobre

a cura di Simona Bartolena

Giuseppe Buffoli, Camilla Marinoni, Marta Vezzoli

Inaugurazione sabato 29 settembre 2018 ore 17

Come raccontare la guerra con un’opera visiva? Come affrontare il dolore, la devastazione, la violenza ma anche (e soprattutto) l’assurdità di un conflitto senza cadere nella banalità di un’immagine didascalica? In un secolo che ha vissuto due conflitti mondiali come quello scorso, il confronto con l’evento bellico è stato inevitabile per gli artisti. Qualcuno lo ha affrontato frontalmente, realizzando opere di disarmante violenza visiva – da Guernica di Picasso all’Autoritratto con la mano tagliata di Kirchner –, altri hanno cercato la via di fuga, cercando riparo in immagini di avvolgente bellezza – come fece Miró con le sue Costellazioni – ma tutti hanno dovuto fare in qualche modo i conti con la situazione politica e sociale di un continente ferito.

Se la seconda guerra mondiale e l’epoca dei totalitarismi hanno di fatto causato una cesura nel mondo dell’arte europea, rallentando l’attività culturale e costringendo molti artisti e intellettuali a fuggire oltreoceano, il conflitto del “quindici-diciotto” ha invece visto una straordinaria rivitalizzazione della produzione artistica, grazie al ruolo detonante delle Avanguardie. Guerra di trincea, sanguinosissima al fronte ma meno invasiva sul piano della vita civile nei centri urbani, la prima guerra mondiale non ha messo a tacere l’arte, anzi, le ha dato una voce forte e veemente, traducendosi ora nelle grida interventiste e bellicose dei futuristi, ora nell’urlo dilaniante degli espressionisti, ora nella carica distruttiva e irriverente del Dada.



Sulla guerra e i suoi effetti, dunque, è già stato detto molto (e bene) da chi l’ha vissuta sulla propria pelle, andando al fronte, cercando rifugio da un bombardamento, scappando dalle persecuzioni di una dittatura… La letteratura artistica sul tema è sterminata e concede ampi margini di riflessione e dibattito sia nell’ambito storico che in quello artistico. Cosa poter dire, ancora? Perché ancora oggi, a cento anni dalla fine del primo conflitto mondiale ha ancora senso che l’arte parli di guerra?

Come prima risposta si potrebbe certamente ricordare una triste verità: la memoria dell’uomo è evidentemente corta. Non si spiegherebbero altrimenti il ripetersi di situazioni già sperimentate in passato. La coscienza del dramma non è sufficiente all’essere umano per non riprodurlo sempre con rinnovato vigore. “La guerra che verrà non è la prima”, scriveva Bertold Brecht, e sappiamo bene come dagli errori l’umanità impari poco o nulla e ci sia sempre bisogno di motivi di riflessione a riguardo: un’immagine – o più in generale un concetto espresso in forma artistica – può essere un monito molto più efficace di molte parole. Ma non è solo questo il punto. La prima guerra mondiale è stato un conflitto che ha riguardato il singolo individuo: i soldati al fronte, i corpi dilaniati nel fango delle trincee. La solitudine, la paura, il dolore, l’alienazione, la rabbia, la menomazione fisica e psichica (si pensi in questo senso alla già citata mano tagliato di Kirchner) sono sentimenti che riguardano l’essere umano nella sua sfera più intima: sono una questione individuale, personale, che può essere tradotta anche in altri contesti, contesti di solitudine e alienazione in situazioni che con la guerra non hanno nulla a che vedere. Contesti che appartengono alla quotidianità dell’essere umano, anche nell’attualità.

La solitudine, la paura, il dolore, l’alienazione, la rabbia, la menomazione fisica e psichica di un soldato in trincea diventano, dunque, sentimenti sempre attuali, che ciascuno di noi potrebbe trovarsi a provare in situazioni ben meno gravi di una trincea ma non per questo meno spaventosi, poiché tutto è relativo.




Ciò che unisce i lavori dei tre artisti in mostra è proprio questo: non si racconta la guerra ma l’effetto della guerra sull’uomo. Partendo dalle suggestioni dei resoconti, degli studi e delle immagini sul primo conflitto mondiale Marta Vezzoli, Camilla Marinoni e Giuseppe Buffoli hanno raccontato la fragilità umana, hanno messo in scena una sofferenza che riguarda tutti i feriti di tutte le guerre, anche quelle combattute nella società civile.


Marta Vezzoli, con la sua consueta delicatezza di tocco accompagnata da una straordinaria fermezza nell’attitudine, ha ragionato sulla lontananza da casa, rappresentata dall’immagine iconica di un nido. Tornare a casa: ciò che un soldato più desidera. Ma il rientro non comporta solo aspetti gioiosi: accanto alla volontà di rinascita e di ripresa della condizione di “normalità” ci sono i fantasmi di quanto vissuto, l’odore della morte sulla pelle, la disillusione con cui fare i conti. Per questo motivo i nidi non sono interi, non sono stabili e ricordano delle croci, delle sepolture. Uno è un nido vero; dalla sua base si propagano fili di ferro che formano a loro volta un altro nido, appoggiato a terra. La tensione emotiva accumulata nell’esperienza bellica non si esaurisce con il rientro a casa del soldato, ma continua, estenuante e dolorosa, come un sibilo sottile ma acuto, capace di condizionarne la psiche.


Camilla Marinoni, invece, ha lavorato sulla perdita e sulla ferita che questa esperienza dolorosa comporta. La sua Zaffo è un’installazione composta da cento elementi installati a parete. Ogni elemento è realizzato con carta cotton, filo di cotone intrecciato all’uncinetto e l’immagine di un seno o di un ombelico. Lo zaffo è un tampone di garza che si usa a scopo emostatico o di controllo nelle ferite, nelle cavità naturali o nei tagli operatori. In questo caso, dunque, diventa simbolo di una presa di coscienza: nessuna ferita si può curare, nessun dolore si può dimenticare. Ma anche nel dramma c’è una luce che lenisce la sofferenza: la bellezza di un ricordo, della vita che prosegue il suo ciclo, della speranza di un domani migliore. Anche il secondo lavoro firmato dalla Marinoni porta la sua inconfondibile cifra stilistica, la commistione tra la delicatezza del lavoro a uncinetto – che conserva anche il sapore di lavori femminili d’altri tempi – e la durezza del messaggio, in questo caso esaltata dalla presenza del filo spinato. Si parla ancora di ferite: quelle lasciate dalla fine del conflitto, quando si fanno i conti con la realtà, con quanto resta, con i morti da seppellire.


Infine Giuseppe Buffoli, che condivide con le altre due artiste una straordinaria capacità narrativa pur nella scelta della forma astratta. Buffoli ha lavorato ispirandosi al lavoro della scultrice Ann Coleman Ladd nota per aver messo la sua arte al servizio dei mutilati di guerra. La Coleman Ladd realizzava, infatti, un calco del volto sfigurato dei soldati feriti e vi costruiva una maschera da indossare per coprire la menomazione, restituendo simbolicamente con questo gesto la dignità a chi aveva subito gravi e vistose ingiurie fisiche nel conflitto. Partendo da questo evocativo lavoro della scultrice americana, Buffoli ha fatto un calco del proprio muscolo procero, un piccolo muscolo facciale da cui dipende buona parte della nostra mimica, soprattutto nelle espressioni di ira, rabbia e dolore. Ingigantendo il calco del suo muscolo contratto in un’espressione di dolore, ha creato una forma astratta che, pur perdendo la riconoscibilità del brano anatomico rappresentato, ne evoca il ruolo nella mimica di un volto deformato da un’emozione negativa.

Anche lui, dunque, pur ispirandosi agli orrori della guerra, ha creato un’opera che obbliga ad affrontare questioni esistenziali più ampie, che riguardano la sfera personale di un individuo sottoposto a situazioni di forte tensione e di sofferenza.

Le foglie che cadono di ungarettiana memoria evocate nel titolo, dunque, sono lì per ricordarci che la guerra non è mai finita e non è solo quella che si combatte al fronte. Ci sono guerre quotidiane, vissute nella solitudine del proprio privato, ferite invisibili difficili da rimarginare.

Con i loro linguaggi sospesi, densi di silenzi ed essenziali nelle forme e nei materiali, che nascondono dietro a un’apparenza fragile una straordinaria forza espressiva, i tre artisti di questa mostra raccontano una condizione esistenziale che nella guerra ha la sua espressione più evidente, ma che è anche parte del nostro più banale quotidiano.


Simona Bartolena

PRIMA CHE LE FOGLIE CADANO

Villa Damioli - Fondazione Cicogna Rampana, via Garibaldi 22 - Palazzolo sull'Oglio (BS)

Orari e giorni di apertura

ven e sab 16,00-20,00; dom 10,00-12,00 e 16,00-20,00

bottom of page